L’altro giorno mi hanno fatto una festa a sorpresa.
Penso che in 35 anni non mi sia mai capitato, o meglio, non ne ricordo di particolari.
Non amici storici (o meglio, non tutti), non la famiglia. Ma i miei ex colleghi.
Aver lasciato il mio vecchio locale è stato per me un magone molto difficile da mandare giù. Perché con quelle persone avevo legato tanto, mi hanno visto crescere e passare da un loro pari a direttore.
E dopo l’addio di mesi fa, erano di nuovo tra loro, tra risate e regali, e (soprattutto) con quella sensazione inaspettata che ti fa pensare: “Allora qualcosa è rimasto.”
E la cosa strana è che io, con loro, non ero un pari.
Ero il direttore.
Quello che prendeva decisioni, che a volte diceva no, che magari non sempre riusciva ad arrivare a tutti.
E proprio questo ruolo mi ha sempre fatto temere che il rapporto tra di noi fosse un illusione, domandandomi fino a dove arrivava l’amicizia e iniziava una sorta di approfittarsene, un semplice modo per tenersi buono il capo per ottenere dei favori.
Eppure, a distanza di tempo, hanno sentito il bisogno (o forse semplicemente la voglia) di festeggiarmi.
Di dirmi, con un gesto: “Tu conti, anche adesso che non sei più qui.”
Mi ha colpito.
Perché mi ha fatto riflettere su quante relazioni di lavoro siano spesso solo “funzionali”, legate al ruolo, agli orari, alla convivenza forzata.
Ma ogni tanto, in mezzo a quella routine, qualcosa scatta davvero.
Un rispetto che diventa stima.
Una stima che diventa affetto.
E forse il punto è proprio questo: non importa quanto autorevole cerchi di essere.
Conta quanto umano riesci a restare.
Conta cosa lasci nelle persone, più che nei documenti o nei report.
Quel giorno non ho ricevuto solo un augurio.
Ho ricevuto un segnale.
Che si può lavorare insieme e rimanere umani.
Che a volte, un luogo di lavoro può diventare una piccola famiglia.
Quel momento lo porterò con me per molto, molto tempo.
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